Nureyev e la sirena

Se Partenope tornasse nelle sue penne dove si recherebbe? E in quale tempo? E chi incontrerebbe? E di cosa parlerebbe?

Quel pomeriggio d’estate le mie spoglie semidivine mescolate al tufo di Megaride presero di nuovo vita. Così mi ritrovai nel mio corpo di sirena, mezza donna e mezzo uccello. Spiccai il volo per tornare al luogo che per me era una ossessione da quasi tremila anni: l’isolotto erboso dal quale io e le mie sorelle avevamo chiamato Ulisse e che ora chiamano Li Galli.

Planai di notte sul blu profondo del Tirreno, mi accostai a una catena di rocce a strapiombo, avvistai l’arcipelago formato da tre isole, atterrai sul colle dell’isola più grande, sul tetto di una villa bianca, e aspettai Ulisse.

Aerial,View,Of,The,Li,Galli,Islands,Archipelago,,From,Amalfi

Spuntò l’alba. Di Ulisse neanche l’ombra. In compenso, dalla villa bianca uscì un uomo seminudo con in testa un berretto nero con una visiera che gli copriva metà fronte. Il suo naso dritto, dalle narici larghe, si muoveva insieme alle labbra in un duetto sensuale. Il suo torso, perfettamente scolpito, accoglieva i raggi del sole rimandandoli indietro, come altrettante spade di luce. Le natiche contrastavano la forza di gravita con mille nervature di muscoli.

Per tutti i corpi di Bacco! Sembrava un dio!

Mi vide, si fermò, si presentò.

  • Salve, mi chiamo Rudolf, Rudolf Nureyev. Ti aspettavo.
  • Mi aspettavi?
  • Ho comprato questo intero arcipelago pensando che prima o poi saresti tornata.
  • Eh, nei millenni tutti gli immortali tendono a ripetere le loro gesta, dissi, un po’ in imbarazzo.

Rudolf mi invitò a scendere dal tetto. Ma io non volli. Avvistate da lontano, noi sirene siamo irresistibili, ma da vicino possiamo avere l’aria stantìa di dinosauri. Nurejev non provò ad insistere. Sapeva che certe creature vanno guardate attraverso la bruma.

  • Conosci la mia storia, mortale?
  • Certo. E non ti nascondo che bramo di sentire il tuo canto, Partenope. Io non ho paura.
  •  
  • Spiegati meglio – gli dissi, non senza emozione. I mortali di questo tipo sono simili a Ulisse. Hanno negli occhi una determinazione che un dio manco si sogna: la speranza di essere immortali.
  •  
  • Ho dedicato la mia vita alla danza. La danza mi ha condotto dai ghiacci degli Urali a questo sole asciutto. Danzerò fino all’ultimo. Ma desidero interrogarti, Partenope, sul tempo che mi resta, e su quello che continuerà senza di me.
  •  
  • Per un umano il tempo non è altro che una pietra su cui scolpire gesti, dissi, giusto per rispondere a tono. Grazie alla mia preveggenza, capivo che non gli restava molto da vivere. Così, appollaiata sul tetto della sua villa, mentre il sole saliva alto in cielo, spalancai le ali, e cantai:
  • Ascolta, glorioso Rudolf Chametovich Nureyev, grande vanto degli umani , dagli Urali ghiacciati al Mediterraneo, tutto noi sirene sappiamo di ciò che accade sulla terra feconda. Tua madre ti ha dato alla luce sul vagone di un treno. Così, dal primo vagito tu hai saputo di essere libero e in transito perpetuo. Gli uomini ti chiamano Tartaro Volante. La tua gloria è destinata a restare.
  •  
  • Aspetta un attimo Partenope. Gloria in che senso?

Per Giove! Non potevo credere fosse così ingenuo. Aveva il corpo di una statua scolpita da Lisippo. Abitava sull’isola di noi antiche sirene pennute. Era chiaro che Rudolf voleva riccalcare le impronte del mito. Però volli fargli capire che un mortale può essere immortale solo nel nome.

  • Sei una stella della danza, e finirai nei libri di storia. Tra qualche decennio, quando saranno morti quelli che ti hanno visto vivo e le memorie scoloreranno, resterà l’eco della tua danza. La tua storia si trasformerà in leggenda. Nessuno saprà più nulla di te, Rudolf, di quale faccia avevi quando eri contento, di che voce avevi quando eri innamorato. Ma il tuo nome sarà ricordato.
  • Già. Per qualche generazione il mio nome sarà ricordato.
  • Questo ti fa stare meglio al cospetto della morte?
  • Lo ammetto, si.
  • Allora, fattelo dire, cerchi lo stesso tipo di gloria che cercavano Achille, Aiace, Agamennone. Sapevano di essere belli e forti il tempo di una scintilla. Sapevano che Ananke, colei che tesse i destini, aveva in mano le date di inizio e di fine, ma desideravano risplendere nel loro breve tempo di vita. Soprattutto, volevano che risplendessero i loro corpi. Grazie ai loro corpi splendenti, i loro nomi furono cantati.

Senza farselo ripetere due volte, Rudolf Nurejev danzò per me, Partenope, sullo sfondo della radura erbosa. E danzando, scriveva frasi esatte. Con che leggerezza il suo corpo sfidava la gravità, e riusciva a disegnare figure che svelavano a me, semi immortale, altri misteri.

nereide

Pensai che è un prodigio che un umano sappia più di un dio quando canta o danza. E pensai che è bello che un umano di stirpe guerriera voglia danzare.

  • Divino Nurejev, La tua danza è come il canto di noi sirene. Tutto è chiaro, ma riesce impossibile spiegarlo. Le tue piroette sono entrate in orbite celesti.
  • Sono così felice, potrei anche morire.
  • Senza dubbio ti tocca. Ma non avere fretta. Piuttosto, toglimi una curiosità, hai visto Odisseo passare da qui con la sua nave scalcagnata?

Non feci in tempo a chiederglielo che nel sole di mezzogiorno apparve una nave, che sembrava sciogliersi nella luce. Era a remi. E sopra c’era Ulisse. Era legato all’albero maestro, circondato dai suoi compagni. Aveva i suoi eterni quaranta anni. Era bellissimo. Cantai. Ma lui non mi venne incontro. Ne fui ferita per l’ennesima volta. E feci per compiere il salto suicida. Rudolf Nureyev urlò:

  • Partenope, non farlo. Quello non è Odisseo, ma il suo riverbero.

Guardai bene. Era proprio così. Ulisse era un riverbero. E svanì appena lo chiamai tale. Noi, creature semidivine, non distinguiamo l’oggi dal domani, la persona dal sembiante. La realtà dall’immaginazione. Tutto è sempre eternamente ora. Nel mio caso anche l’innamoramento per quel riverbero.

Così mi tuffai lo stesso (Nei millenni tutti gli immortali tendono a ripetere le loro gesta) E annegai. E sulle mie spoglie tornarono a fondare la città che porta il mio nome in un tempo dei tempi che è sempre presente.

Invece, Rudolf restò ancora qualche tempo sull’isola. Morì di lì a poco, di una malattia misteriosa, pare, causata dal dispettoso Eros. Lo ricordo ancora mentre danzava, sullo sfondo della radura erbosa, col suo corpo splendente da dio. Di lui, si narra ancora. E finchè ci sarà voce a raccontare la sua storia, il suo nome vibrerà.

Il tempo per gli umani non è che una pietra per scolpire gesti.

Noi immortali o semi mortali, privi di tempo, non possiamo scolpire. Così, abbiamo bisogno che gli umani ci rendano visibili nei loro sogni.

Forse Rudolf Nureyev lo aveva capito. Astuto come solo un mortale può essere, non me lo aveva fatto capire.